Narrare e narrarsi

Montesilvano (PE) 2012

Giuseppe Maiolo
Psicologo, psicoterapeuta

Noi pensiamo per storie
perché siamo costituiti da storie,
immersi in storie,
fatti di storie. (Bateson)

La storia siamo noi, nessuno si senta escluso”, recita la bella canzone di Francesco De Gregori. È un punto da cui partire, ma anche una meta, un punto di arrivo da cui ripartire continuamente. Perché sapere che la storia ci appartiene come una seconda pelle, come uno spessore che si genera e ci genera, forse ci aiuta ad essere quello che siamo, a non sentirci soli con noi stessi e a non disperdere i ricordi, le relazioni, l’esistenza, ovvero la vita stessa che viviamo e abbiamo vissuto.
Tutto questo però ha bisogno di uno strumento: la narrazione. Non ci può essere storia senza che sia narrata così come non ci può essere vita senza che qualcuno la racconti. “Essere al mondo ci fa narratori e individui che sono narrati” dice con acutezza Duccio Demetrio, grande studioso della narrazione. Il che allude alla circolarità del “narrare”, senza la quale non possiamo esistere. E allora, inventarsi una storia, la propria storia, e raccontarla non è un semplice gioco della fantasia, ma la possibilità preziosa di accedere a se stessi e attraverso il filo della memoria ritrovarsi, ma anche trasmettere aspetti di sé a chi sta con noi o entra nel nostro spazio relazionale.
Narrare non è semplicemente un dire cronologico di eventi, ma un’azione di grande valore perché è un fare e donare storia, quella che serve per costruire la coscienza e la conoscenza. I giovani, i figli in particolare, apprendono la realtà attraverso le nostre storie, e noi tutti costruiamo schemi interni proprio grazie alle narrazioni che ci sono state passate.
Narrare e narrarsi vuol dire entrare in relazione con l’altro che consente, come dice Vanna Boffo, la costruzione del sé proprio “a partire dal racconto nell’interazione con l’altro”. È questa la comunicazione che vitalizza la relazione, quella di cui hanno tanto bisogno i nostri figli. Serve raccontarsi perché prima di tutto ciascuno di noi ha bisogno di non perdersi nell’abisso del tempo, quanto ascoltare ciò che esiste dentro, nel ricordo delle cose che abbiamo fatto. Serve per farsi del bene e prenderci cura di noi stessi. Amarsi. Questo precede sempre l’atto di amore verso l’altro. Impossibile il secondo senza il primo. È così che raccontare vuol dire essere dentro la relazione, occuparsi, prendersi cura, donarsi e sapere che possiamo essere nel pensiero di un altro ma nello stesso tempo avere l’altro nei nostri pensieri.
In fondo noi narriamo tutto ciò che amiamo e chi ci vuole bene ci racconta. Il contrario, il non essere narrati vuol dire essere dimenticati. Allo stesso modo dimenticare qualcuno significa trascurarlo e non amarlo perché non ha posto dentro la nostra mente. I tanti casi di adulti che dimenticano i figli a scuola, o peggio ancora in un’auto sotto il sole cocente, ne sono l’esempio estremo e più drammatico.
La storia che non raccontiamo non esiste. E oggi purtroppo si racconta poco. Ci siamo allontanati troppo dalle storie, per intenderci quelle che hanno uno sviluppo, un inizio, una trama, una conclusione. Tutto sembra essere rarefatto, frammentario, episodico. I figli del nostro tempo assai spesso conoscono poco dei loro genitori. Sanno poco di un padre e di una madre. Forse solo qualche pezzo frammentario della loro storia ma non hanno le loro emozioni, non contengono i loro sentimenti perché non li hanno ricevuti in dono.
Oggi più che mai la narrazione sembra mancare nelle nostre relazioni. Si è spappolata nella comunicazione frammentaria dei messaggini telefonici che vengono utilizzati tra genitori e figli per comunicare. Si è deformata in una “diarrea narrativa” perché spesso le cose che diciamo sono ripetitive e ingombranti, infinite, sovente senza capo né coda. Le soap opera che ci incatenano davanti alla TV ne sono l’esempio più evidente di quella logorrea comunicativa che ci allaga la mente. Di certo abbiamo smesso di raccontare anche perché pochi ascoltano presi come siamo un po’ tutti dalla centrifuga del fare senza sosta, dell’agire perpetuo per tentare di debellare l’ozio ritenuto un vizio. E poi si racconta poco perché le relazioni si sono impoverite, i rapporti privi di spessore, frequentemente usa e getta.
Mi chiedo se adesso non sia venuto il tempo di ri-cominciare a recuperare il piacere del “raccontarsi” iniziando a fare tesoro della memoria e dei propri ricordi. Serve allora fare autobiografia, cioè parlare e scrivere di sé. Perché è l’occasione preziosa cha abbiamo di far vivere la nostra vita annodando il presente al passato e insieme trattenere sensazioni e emozioni, stati d’animo e vissuti che hanno accompagnato la nostra esistenza.
Fare autobiografia vuol dire però costruire la storia da dare agli altri, in particolare ai figli perché loro hanno bisogno delle nostre storie per costruire la loro. Vuol narrarsi non per eventi ma come individui che hanno bisogni, desideri, paure, successi e anche fallimenti o difficoltà. Significa mettere in comune gioie e timori, angosce ed entusiasmi che ci hanno accompagnato. Così mentre ripensiamo a noi stessi, diamo senso alla realtà, continuità al tempo, costruiamo relazione, ci curiamo e curiamo, nel senso che ci occupiamo di noi e degli altri.
Perché la cura è proprio il modo specifico dell’essere genitori, quella che ci consente di abitare il pianeta della relazione, dell’esserci dentro. È ciò che costruisce legami e fa essere in contatto. La cura, prima ancora di essere terapia, è un esercizio, è un prendersi cura. Essere genitori che curano vuol dire essere capaci di accompagnare la crescita dei figli, sostenere il cambiamento, valorizzare le trasformazioni. Tutto questo a partire prima di tutto dalla memoria di noi e della nostra infanzia, dal ricordo delle cure che abbiamo ricevuto, ma anche di quelle che ci sono mancate.
Narrare e narrarsi allora, può essere il modo prezioso che abbiamo di fare della parola un dono da offrire. A patto che la parola sia viva e capace di suscitare ascolto, affascinare e coinvolgere chi narra e chi ascolta in uno stesso processo circolare. Questa è l’essenza stessa della comunicazione attraverso la quale può passare sicurezza e fiducia e permetterci reciprocamente di crescere e far continuare all’infinito la storia che ci appartiene. Perché, come afferma Pinkola Estès, “A noi non è dato di vivere in eterno, alle storie sì”.